Arianna Dagnino e le sue traversate conoscitive

La ricercatrice, scrittrice e giornalista Arianna Dagnino, oltre a condividere i natali nel capoluogo ligure con l’illustre navigatore Cristoforo Colombo, ne perpetua perfettamente lo spirito, con una analoga spinta all’esplorazione e all’ampliamento degli orizzonti conoscitivi.

A metà anni novanta, in anticipo rispetto all’incipiente rivoluzione tecnologica, la studiosa ha contribuito in maniera determinante alla definizione del concetto chiave di «neonomadismo», ovvero l’attraversamento dei confini e delle appartenenze sociali come tratti salienti delle figure professionali del nuovo millennio.

A riprova della vastità e trasversalità delle sue competenze, l’autrice ha di recente scritto un’opera di finzione narrativa, che discende direttamente dalla sua esperienza di corrispondente in Sudafrica durante gli anni del post-apartheid.

Per maggiori informazioni sul romanzo, The Afrikaner (Guernica Editions, 2019), di cui Arianna Dagnino ci parla nella seguente intervista, invitiamo a consultare il sito web: https://blogs.ubc.ca/afrikaner/

Presentati ai nostri lettori. In quale humus culturale sei cresciuta? C’è una esperienza che più delle altre ti ha fatto sentire «cittadina del mondo»?

Sono nata a Genova e cresciuta tra gli ulivi della riviera ligure (Sestri Levante), con l’orizzonte marino sempre spalancato davanti a me, come un libro aperto sull’ignoto.

D’altronde alle elementari ci hanno impartito a iosa lezioni sulle imprese di Cristoforo Colombo, il nostro più celebre navigatore. Più che sui libri di scuola, però, mi sono formata sui romanzi d’avventura: i western di Zane Grey, le isole (del tesoro e non) e le brughiere scozzesi di Robert Louis Stevenson, le avventure di Jack London nel Klondike e quelle di Mark Twain lungo il Mississippi. E poi gli autori della «Lost Generation» (tra cui, Hemingway, F.S. Fitzgerald, John Dos Passos, Henry Miller) e della «Beat Generation» (Jack Kerouac e la sua «strada» sopra a tutti).

Forse l’esperienza di gioventù che più mi ha reso, oltre che fatto sentire, «cittadina del mondo» è legata al periodo trascorso a Mosca all’istituto Pushkin di lingua russa, frequentato da studenti di tutte le nazionalità, dagli statunitensi – il piano a loro dedicato era stato ironicamente ribattezzato «the nest of spies» («il nido delle spie») – ai cubani, dai cileni ai cinesi.

«Sono loro, i grandi attraversatori di frontiere – multimediali, multietnici e multiculturali – la prima evidente espressione del mutamento epocale che sta vivendo l’umanità alle soglie del terzo millennio». Come si evince da questo passo – tratto dal tuo saggio I nuovi nomadi. Pionieri della mutazione, culture evolutive, nuove professioni (Castelvecchi, 1996) – sei stata tra le prime a intercettare l’opportunità di annullamento delle barriere fisiche e culturali, offerta dall’incipiente rivoluzione tecnologica. Eppure, questi «nomadi» sono spesso demonizzati, quasi gli si imputasse quale una grave colpa lo sradicamento dalla propria terra d’origine. Puoi gettare un po’ di luce su questa contraddizione?

Credo sia importante fare una distinzione di fondo. Da un lato, come già preconizzato nel mio libretto pubblicato nel 1996, le tecnologie digitali hanno effettivamente consentito a milioni di persone di entrare in contatto e lavorare, indipendentemente o in network, anche stando a migliaia di chilometri di distanza, spezzando così i lacci imposti dalla geografia e dai confini nazionali.

Dall’altro, però, lo sviluppo delle tecnologie digitali unito a e sospinto da un approccio neoliberistico all’apertura dei mercati su scala globale ha in qualche modo snaturato e svilito un movimento di pensiero nato per proporre forme di «neonomadismo» che idealmente (o forse utopisticamente) liberassero l’individuo dalle pastoie della sedentarietà (spesso percepita come immobilità) fisica, professionale ed esistenziale.

Come è nato e quali sono le finalità del progetto «Nomads CA – Culture Lab»? 

«Nomads CA – Culture Lab» (CA sta per Canada) è il proseguimento di un percorso intrapreso da me e mio marito Stefano Gulmanelli da ormai tre decenni attraverso cinque continenti e che ha toccato esperienze professionali diversificate – giornalismo, scrittura di romanzi e saggi, fotografia, traduzioni, consulenza – tutte legate dal filo conduttore dell’espressione, dell’analisi e della comunicazione attraverso parole e immagini.

Il progetto era quello di porsi, come scrivemmo a suo tempo sul sito italiano della «Nomads Italia» (www.nomads.it, che oggi è solo un archivio), come «interpreti della conoscenza» votati allo studio dei fenomeni transculturali e delle interazioni che avvengono lungo le «faglie» culturali.

Questo ci ha portato a trascorrere quasi vent’anni della nostra vita in paesi come il Sudafrica, l’Australia (c’è stata una «Nomads Aus») e, attualmente, il Canada, ma anche a rientrare in accademia, prendere un PhD e affiancare alla nostra attività di ricerca l’insegnamento universitario. 

Attualmente, insegni lingua e letteratura italiana presso la «University of British Columbia» di Vancouver. Come definiresti la vita accademica, da un lato, e quella culturale della città, dall’altro? 

La «University of British Columbia» è un’istituzione accademica con un’ottima reputazione a livello internazionale (si situa tra le migliori quaranta del mondo), con oltre sessantacinquemila studenti e un corpo docente, provenienti da ogni angolo del globo. Da questo punto di vista, è un polo di conoscenza globale inserito in un contesto nordamericano, ma con forti legami sia con l’Europa e l’Asia (Cina e India), sia con il Sudamerica.

Quanto alla città e alla sua vita culturale, non si può prescindere da un dato che per certi aspetti ha dell’inverosimile: il 43 per cetno della popolazione cittadina è di origine asiatica. Questa caratteristica rende Vancouver un osservatorio peculiare del modo in cui altre culture – ad esempio cinese o indiana – si relazionano ad un contesto permeato di valori occidentali e nordamericani. Ma non sempre questo elemento viene valorizzato nel modo adeguato. Al riguardo posso raccontare un aneddoto a mio parere significativo: quando ci trasferimmo dall’Australia a Vancouver, proponemmo ad uno dei giornali con cui collaboravamo da tempo attraverso un nostro blog di sfruttare questa peculiarità e raccontare la cultura asiatica «ricostituita» fuori dall’Asia. La risposta fu: «Noi la cultura asiatica la raccontiamo dall’Asia». Cosa dire dinanzi a risposte come queste?

Ci puoi parlare del tuo ruolo all’interno della Dante Alighieri Society of BC?

Quanto al mio ruolo nel Chapter («Capitolo») della «Dante Alighieri Society» nel British Columbia, mi occupo di organizzare eventi culturali che abbiano un forte legame con la cultura italiana. È il mio modo di mantenere un ideale cordone ombelicale con quella che comunque rimane la mia cultura originaria.

Tanto per rendere l’idea, abbiamo invitato a Vancouver il regista Valerio Jalongo, autore del documentario pluripremiato The sense of beauty («Il senso della bellezza»), girato al Cern di Ginevra, e prossimamente avremo tra noi l’ex giornalista della Reuters Roberto Bonzio, fondatore di «Italiani di frontiera» (www.italianidifrontiera.com), e la scrittrice Gloria Mattioni, da anni residente a Los Angeles.

Hai di recente pubblicato un romanzo, The Afrikaner (Guernica, Toronto, 2019), ispirato alla tua esperienza di corrispondente estera in Sudafrica. La protagonista, Zoe Du Plessis, discende proprio dagli Afrikaner del titolo. Ritieni che per noi europei, a prescindere dalle nostre convinzioni, sia più facile assumere il punto di vista dei colonizzatori (o loro discendenti, come in questo caso) rispetto a quello delle popolazioni indigene?

La domanda si presta a due diverse interpretazioni. Se s’intende dire che la contiguità culturale e la condivisione di storie ed esperienze d’impronta europea rendono più immediata l’identificazione con certi popoli e gruppi (e la comprensione del loro punto di vista) rispetto ad altri, ebbene, questo è innegabile.

Se invece, come una certa corrente accademica sostiene, ognuno dovrebbe limitarsi a raccontare la prospettiva del proprio gruppo culturale ed evitare la cosiddetta «appropriazione culturale» perché uno scrittore non può capire le culture o le prospettive «altre» – e men che meno immedesimarcisi – su ciò mi trovo in forte dissenso. Forse che Flaubert non avrebbe dovuto dar vita a Madame Bovary o Shakespeare scrivere con la voce di Otello o del Mercante di Venezia?

Per come la vedo io, l’arte esiste proprio per questo: andare oltre ogni confine (reale o immaginato, imposto o subito) ed esplorare ciò che ancora non si conosce, di sé e degli altri.

Il tuo romanzo inevitabilmente richiama Cuore di tenebra di J. Conrad, nonché la corrispondente, pregevole seppure libera, trasposizione cinematografica Apocalypse Now, diretta da F.F. Coppola.  Potresti parlarci del progetto di adattare The Afrikaner al grande schermo? Hai già svolto un lavoro del tipo: «questo elemento resta, questo si può tagliare, questo invece va modificato»?

Ho iniziato a lavorare alla sceneggiatura di The Afrikaner insieme con Ernest Mathijs, direttore dei «Film Studies» della «University of British Columbia». Naturalmente tutto il lavoro preparatorio consiste proprio nel tagliare e ridurre un libro di 280 pagine in un film di un’ora e mezza.

Siccome sono un’appassionata di scrittura e traduzione collaborativa, mi piacerebbe trovare un modo di coinvolgere anche i miei lettori in questa operazione. Per esempio, mi piacerebbe capire quali sono i personaggi e le scene che, secondo loro, potrei eliminare (o fondere insieme) e quali dovrei assolutamente mantenere e vedere se le loro scelte coincidono con le mie e quelle di Ernest.

Scrivere una sceneggiatura richiede una tecnica di scrittura completamente diversa e sono contenta di potermi cimentare in questa nuova impresa che – da amante tanto del cinema quanto dei libri – trovo particolarmente affascinante.

Valerio Viale

Nella foto: Arianna Dagnino

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