Il fascino della natura

Fine aprile. Sono le cinque del pomeriggio quando esco per una breve passeggiata a duecento metri da casa, indossando mascherina protettiva e guanti gialli in gomma (proprio quelli per lavare i piatti) che escono dai polsini del mio giubbotto come le mani di Topolino… Guardandomi credo anche di aver sorriso, all’insaputa dei passanti. Ed eccomi ad osservare le radici di un albero.

Mi sovviene un pensiero. Esse sono la forza del primo chakra, in sanscrito Muladhara, che ci collega alla terra: la stabilità, il radicamento al suolo, la centratura dell’io. Così desidero subito scattare una foto per fermare quella visione. Mi volto, vedo la mia auto nel parcheggio lungo il viale e penso a quante volte sono salita nell’abitacolo senza notare nulla di quel grande e robusto albero di fronte, men che meno quelle strane forme circolari che caratterizzano i suoi basamenti dal colore grigio tendente al tortora. Nel salire o scendere dall’auto ero sempre sommersa da una frenesia di pensieri su quello che avrei dovuto fare mentre tutto il resto rappresentava solo un contorno superfluo.

Poi alzo gli occhi e rimango affascinata dalle foglie degli alberi circostanti; uno squarcio di sole penetra al loro interno mentre intravedo l’azzurro cielo primaverile. Fermo lo sguardo ad osservarlo, sento il profumo dell’aria che mi solletica le narici. Percepisco una temperatura piacevole, quasi tangibile sul mio viso e la sento come se fosse  una tiepida carezza. Inspiro ed espiro dolcemente così come faccio quando medito da casa, tra le quattro mura di una stanza chiusa. Prendo lo smartphone dalla tasca della giacca di pelle ed è subito un altro clic.

Poi mi sposto lentamente appoggiando le suole delle scarpe sui sampietrini della strada che noto così pulita e solida. La attraverso e ricordo analoghe sensazioni provate tanti anni prima mentre guardavo un vecchio film di Ermanno Olmi, Il tempo si è fermato, che nel 1958 segnò il lancio del regista nell’industria cinematografica italiana. Il lungometraggio, in perfetto stile neorealista, si svolge in un contesto montano di rara bellezza, alle pendici del monte Adamello, e narra la storia di due personaggi agli antipodi tra loro. Roberto, un giovane studente assunto come guardiano della diga per la stagione invernale, abbandona la comodità della vita urbana per salire fino a 2.500 metri di altitudine dove incontra l’anziano Natale, uomo taciturno, freddo e introverso con cui dovrà convivere all’interno di una rustica baita. Con il tempo il loro rapporto migliorerà attraverso un processo di aiuto e di umile insegnamento fatto di gesti essenziali, di azioni infinitesimali dal ritmo lento, immerse in un contesto di magnificenza del mondo.

Con la neve che attutisce ogni suono, la frenesia abituale dell’attività umana viene abbandonata fino a risultare un elemento pleonastico per la pienezza del nostro animo. Anche lo scorrere del tempo risulta differente, viene distorto perdendo i suoi connotati abituali, assumendo un’andatura delicata e mite, un’insorgenza dilatata nella percezione umana, per la quale giunge addirittura ad arrestarsi.

Il film, girato in bianco e nero e in presa diretta con una magistrale fotografia, delineò il filone poetico e un po’ nostalgico di Olmi sottolineando la presenza di quei valori puri di rispetto e condivisione degli affetti che caratterizzarono in seguito tutto il suo filone cinematografico.

Ritorno a passeggiare lentamente, non sono circondata da ampi spazi innevati ma percepisco ugualmente i suoni ovattati e un piacevole immobilismo circostante. Mi guardo ancora attorno e intuisco che non è l’uomo ma la natura a dominare la terra che ora si sta riprendendo i suoi spazi risorgendo maestosa, con una vegetazione rigogliosa che sembra aver fermato il tempo.

Mara Valsania

Nella foto: le radici di un albero

 

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