Il progetto di Martina

«Ciao. Scusami, non mi sono truccata per l’intervista; però, sai, io non mi trucco quasi mai». Esordisce così Martina, trentun anni, con tutta la sua romanità ed un pancione visibile grazie alla sua maglia grigia. Un’intervista dal forte impatto, la sua, esattamente come lei: una giovane donna che non può suscitare indifferenza.

«Ho deciso di abortire quando avevo quasi venticinque anni, avendo già una figlia. Non me la sono sentita di tenere questo bambino, o bambina», mi dice serenamente. «Entrambi dello stesso padre, con cui non sto più da tempo. Non è stato presente per mia figlia e non volevo trovarmi una seconda volta nella stessa situazione, costringendo un altro bambino a crescere senza padre, perché so come ci si sente. Ci sono passata da figlia».

Parla in modo diretto senza farsi intimidire dalle domande; tutt’altro: per lei sono un ottimo spunto di riflessione e confronto. Mi spiega come sia rimasta incinta quando decise di abortire. Spiega perché, nonostante fosse già consapevole di non volere un secondo figlio dallo stesso uomo, non usassero precauzioni: «Stavamo insieme da cinque anni, ma il nostro trascorso mi ha segnata profondamente. Ho cresciuto mia figlia da sola, perché lui non ha voluto assumersi le proprie responsabilità».

Racconta quando, nei primi mesi di vita della bambina, il suo ex compagno rifiuta la paternità, lasciandola ad occuparsi della piccola con il solo aiuto della madre. Dopo diverso tempo e dopo essere riuscita a ritrovare una parvenza di serenità e leggerezza, lui decide di fare un passo indietro per chiederle una seconda possibilità.

«Non so se mi sentissi ancora innamorata di lui o se fosse più forte la necessità di dare un padre a mia figlia. Avevo perduto il mio quando ero ancora adolescente e non volevo che lei sentisse la stessa mancanza».

Accetta allora di tentare una seconda volta, tralasciando il passato, ancorata a queste motivazioni. I due vanno a vivere insieme e durante i loro rapporti decidono di non usare precauzioni: «Usare precauzioni, ai suoi occhi, era vissuto come una sorta di tradimento», mi spiega.

«In un certo senso», continua, «per lui diventare genitori una seconda volta non sarebbe stato un problema». Per lei sì, lo era: non voleva essere abbandonata di nuovo, perché affrontare la maternità senza il sostegno del proprio compagno è un percorso difficile e spaventoso.

La volontà di assecondarlo ed avere rapporti regolari senza protezioni restò tale finché non rimase nuovamente incinta e, senza parlarne con nessuno, si recò al consultorio. Martina sapeva già cosa fare: per lei c’era una sola strada da seguire e questa conduceva verso un’interruzione di gravidanza.

«Mi chiesero ripetutamente se fossi certa della mia intenzione, visto che ero già madre e cosciente della gioia enorme che comporta avere una figlia. Mi dissero di riflettere ancora, di pensarci almeno una settimana, per poi trovarmi costretta ad effettuare un intervento, visto che ormai ero troppo avanti con le settimane».

Tornando a casa non disse niente al compagno, né alla madre o alle amiche. Non aveva alcun dubbio su ciò che voleva fare e, coraggiosamente, continuò a tenere la cosa per sé. Dopo aver confermato la sua scelta per avviare la documentazione, si recò in ospedale per abortire.

«Ricordo che c’era una donna straniera che non parlava italiano e l’unica cosa che riuscirono a dirle fu quella di tornare lì in ospedale con un familiare, per aiutarli a capire meglio la situazione in cui si trovava. Mi chiesi subito come avrebbe fatto se all’origine della sua richiesta di aiuto ci fossero stati degli abusi».

Ci confrontiamo su questo aspetto: un grave problema sociale, una mancanza imperdonabile in cui si evince l’assenza di strutture adatte ad accogliere donne in serie difficoltà; donne che vengono abusate e non sanno a chi rivolgersi né dove andare, venendo così costrette a non lasciare la propria casa, la stessa casa in cui abita il loro carnefice. O donne che, disoccupate, non sanno quale tipo di vita possono offrire ad un figlio e decidono di abortire, ma non hanno il supporto necessario per affrontare il problema senza sentirsi sbagliate. Nessun aiuto concreto, nessun sostegno psicologico, se non apparente: «C’è un solo psicologo in ospedale, ma le donne che si rivolgono a lui prima di abortire sono molto numerose e nessuna viene ascoltata per più di dieci minuti», dice Martina. Ma dieci minuti non sono sufficienti per approfondire le dinamiche di una scelta, per cercare di capire se si ha a che fare con violenze o meno. E non basta così poco tempo per rassicurare una donna che sta compiendo una scelta difficile, anche se voluta.

«Quando si parla di aborto ci sono due estremi: da una parte, se decidi di abortire, sei “contro la vita”; altrimenti sei senza coscienza. Ma non è così, in nessuno dei due casi».

Per sua fortuna Martina ha un attuale compagno che le è stato di grande aiuto nel superare numerose barriere, confrontandosi con lei riguardo alla sua precedente scelta e facendo crollare il muro che aveva costruito per non sentirsi nuovamente vulnerabile. La convinzione di non volersi rivolgere a nessuno è anche la conseguenza di tutte queste carenze, che non permettono ad una donna di prendere le proprie decisioni, ed attuarle, in completa libertà, senza sentirsi osservata da sguardi giudicanti.

«Avevo paura che, se anche in questa relazione si fossero palesati gli stessi problemi della precedente, mi sarei ritrovata sola con una figlia ed un bambino, che ancora doveva nascere, concepiti con due uomini diversi. Ed in questi casi la paura del giudizio altrui è forte. Il mio compagno però ha saputo rassicurarmi e mi sono sentita a mio agio anche parlando dell’aborto».

Eppure continuiamo ad ostacolare l’informazione e l’educazione all’interno degli ambienti scolastici, attraverso seminari, sportelli e psicologi che non trattino la sessualità tra i più giovani come un tabù.

«Sto sviluppando un progetto in cui vorrei coinvolgere le scuole», mi dice Martina entusiasta; «ora, a causa del covid, mi sono dovuta fermare, ma ho intenzione di portarlo avanti appena sarà possibile».

La voglia che palesa Martina nel voler coinvolgere persone competenti in questo programma può essere una delle valide soluzioni contro la disinformazione, sensibilizzando gli adolescenti.

Il mondo è in continua evoluzione, però alcuni aspetti rimangono purtroppo ancorati al passato e sta a noi fare il possibile per sciogliere tali nodi. Essere donne viene ancora considerato una discriminante e questo ci porta a farci sentire troppo spesso inadeguate, pur dovendo sopportare il peso di una società che partendo dal contesto lavorativo fino all’uso improprio del linguaggio – come ci sta facendo notare sempre più spesso Michela Murgia – ancora ostacola l’idea di parità.

Silvia Bruni

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