Agibilità politica per il popolo sovrano

Giorgio Napolitano, commentando a caldo la condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, ha fissato in due principi il suo pensiero: le sentenze vanno applicate e la giustizia va riformata. Sono due verità: la prima assoluta in linea di principio, la seconda relativa sul piano della opportunità politica. In sostanza, la legge va rispettata, ma può o forse deve essere modificata. Si tratta di un modo di esternazione presidenziale privo della solennità degli atti formali ma autorevole sul piano soggettivo in quanto proveniente dal primo cittadino della repubblica. L’attenzione generale si è concentrata sulle conseguenze personali della decisione, che colpisce il condannato in via principale con la pena detentiva e in via accessoria con la interdizione dai pubblici uffici, la quale comporterebbe la decadenza dalla carica di senatore per una duplice causa di ineleggibilità sopravvenuta: la condanna stessa e la previsione normativa della cosiddetta legge Severino di una ulteriore esclusione dal mandato rappresentativo.

            Prima ancora di affrontare questo specifico aspetto, sul quale è chiamata a pronunciarsi in prima battuta la apposita giunta parlamentare, è bene prendere le mosse dalla fattispecie invocata e dalle conseguenti determinazioni sanzionatorie rese ormai definitive dalla pronuncia del giudice di legittimità. Si tratta di una ingente somma sottratta all’erario per la dichiarata responsabilità di determinate persone in violazione di una specifica norma tributaria. In questa materia è possibile valutare se il grado di offensività della condotta sia tale da giustificarne la qualificazione delittuosa piuttosto che quella di illecito amministrativo. Più in generale c’è da chiedersi se sia meglio tutelato l’interesse della collettività attraverso un anacronistico spirito punitivo piuttosto che attraverso un pragmatico inasprimento delle sanzioni pecuniarie ragguagliate alla entità e gravità della violazione dei doveri contributivi. Proprio su questo terreno, come già in passato è avvenuto per la legge sugli stupefacenti, è plausibile una riflessione sulla compatibilità della normativa in oggetto con il dettato costituzionale – attivabile anche nella sede giurisdizionale – nel quadro di un disegno riformatore che, aderendo all’esortazione del presidente della repubblica, conduca a una generale rivisitazione non soltanto delle procedure ma soprattutto dell’intero sistema della giustizia riservando al dominio penalistico unicamente quelle situazioni per le quali appaia inadeguato ogni altro rimedio.

            Una attenzione particolare merita il discorso delle pene accessorie e, nel caso specifico, di quella consistente nella interdizione dai pubblici uffici. Posto che le questioni etiche, per quanto pregevoli, esulano in linea di massima dalla sfera giuridica, vale anche qui l’interrogativo sulla attualità, opportunità ed efficacia, sul piano dell’interesse della comunità nazionale, della esclusione dall’elettorato attivo e passivo di chi sia incorso in vicende giudiziarie scaturite da condotte già sanzionate penalmente, magari per effetto di previsioni di dubbia costituzionalità, senza bisogno di aggiungere una espulsione dal corpo sociale con il sacrificio del diritto di espressione della propria volontà politica come se non bastasse la pura e semplice privazione della libertà personale. Il tema qui introdotto si lega a una visione evolutiva del concetto di sovranità popolare e si raccorda direttamente al primo articolo della costituzione che lo pone a fondamento dell’intero impianto strutturale e organizzativo dello  stato. Vengono a confluire l’interesse del singolo al reinserimento sociale e quello della collettività a far valere le proprie indicazioni rappresentative senza limiti che non siano strettamente imposti da esigenze di ordine pubblico. Il problema si pone in termini di maggiore delica-tezza quando colpisca soggetti ai quali la fiducia popolare è stata ampiamente accordata pur nella piena consapevolezza dei loro comportamenti pubblici e privati.

            Il clamore della cronaca e l’asprezza del confronto politico hanno scatenato una turbolenza dialettica che allontana da un approccio sereno che invece si impone quando si affrontano i grandi  temi istituzionali che vanno ben oltre le sorti di una singola persona, che comunque va tutelata al pari di tutte le altre. L’angolo prospettico va dunque spostato dal piano individuale a quello collettivo guardando al cuore del sistema. Nella realtà italiana il riferimento necessario e ineludibile è la costituzione voluta dal primo legislatore repubblicano che era ben consapevole di agire soprattutto per le generazioni future. La preoccupazione maggiore del costituente fu quella di distribuire il potere in modo da non consentire ad alcuno di invadere le altrui sfere di competenza se non per un intreccio di reciproche interferenze finalizzate all’equilibrio complessivo dell’ordinamento. In questa logica furono chiaramente distinte le tradizionali funzioni legislativa, esecutiva e giudiziaria, lasciando le prime due agli organi costituzionali parlamento e governo e per l’altra assicurando alla magistratura uno status di autonomia e indipendenza; ma furono aggiunte ulteriori garanzie con riguardo ad altri due organi apicali: quello preesistente del capo dello stato e quello nuovo della corte costituzionale, entrambi dotati di un potere di controllo sugli atti legislativi rapportati alla carta fondamentale.

            L’istituto referendario quale forma di democrazia diretta rafforza a un tempo l’esigenza di manifestazione della volontà maggioritaria e di controllo sulla funzione legislativa. Siamo sempre sul terreno della sovranità popolare che è il fulcro del sistema e postula in primo luogo la centralità del parlamento in quanto massima espressione della rappresentanza dei cittadini.

            Rientra nello stesso disegno la introduzione di una serie di cautele volte a evitare possibili straripamenti dalla sfera giudiziaria a quella politica: ed è qui la chiave di lettura del sistema delle immunità di cui quella parlamentare è la più nota ma non l’unica (si pensi, per esempio, ai reati ministeriali e a quelli presidenziali). Talmente forte era questa preoccupazione che il costituente volle addirittura prevedere la liberazione del parlamentare detenuto anche in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna. Scartata ovviamente ogni ipotesi di ingiustificati privilegi, che una deprecata prassi anteriore alla riforma dei primi anni novanta aveva in effetti esasperato oltre ogni ragionevolezza, la autorizzazione a procedere è stata per lo più considerata alla stregua del cosiddetto fumus persecutionis, ossia del timore che l’iniziativa penale fosse riconducibile a spinte motivazionali estranee alla funzione giudiziaria propriamente intesa. Ma in una valutazione più ampia  prevale l’idea di un temperamento della obbligatorietà della azione penale fissando una soglia di sbarramento  ai limiti della sfera di esercizio delegato della sovranità popolare; questa demarcazione veniva a bilanciare la  posizione costituzionalmente garantita alla magistratura, che peraltro nella esperienza concreta non appare del tutto indenne da episodi anomali di deresponsabilizzazione.

            Nel sistema di pesi e contrappesi che caratterizza il nostro ordinamento la figura del capo dello stato risulta valorizzata dal costituente che ne ha fatto il più alto punto di equilibrio riconoscendogli un ruolo attivo che ha superato le antiche prerogative regie senza privarlo di rilevanti poteri tra i quali resiste in funzione residuale quello di grazia e di commutazione delle pene. La giurisprudenza costituzionale, sollecitata dal presidente Ciampi con un conflitto di attribuzione, ha negato al ministro della giustizia il potere di veto obbligandolo alla controfirma, ma nello stesso tempo ha definito e circoscritto l’atto di clemenza vincolandolo a ragioni umanitarie. Da tale interpretazione si è discostato l’attuale presidente, che ha viceversa ritenuto di determinarsi più liberamente verso la fine del suo primo settennato, così aderendo alla originaria impostazione del costituente che aveva voluto esaltare il ruolo del capo dello stato, in questo come in altri casi, tra i quali  lo scioglimento anticipato delle camere soggetto soltanto alla mera consultazione dei loro presidenti. Il concetto di grazia (o di commutazione) viene così esteso oltre i limiti tradizionali e ricondotto a ragioni di opportunità affidate in via esclusiva e insindacabile alla discrezionalità del titolare del relativo potere.

            Quali che siano gli ulteriori sviluppi delle vicende giudiziarie di  Silvio Berlusconi, rimane il punto fondamentale della prevalenza della volontà popolare su ogni altra considerazione. In questa ottica potranno maturare le decisioni del senato in tema di decadenza previo esame della giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari. Al riguardo non può escludersi il coinvolgimento della corte costituzionale nel presupposto della natura giurisdizionale dell’organo chiamato a pronunciarsi (giunta o aula). Ma se si volesse approfondire il tema in modo autonomo, sarebbe pur sempre possibile il ricorso alla hearing, ossia alla udienza conoscitiva, strumento con il quale la giunta può acquisire gli elementi utili a una decisione più meditata e consapevole.

Settembre 2013

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