
Le vicende che hanno determinato la caduta del quarto governo Berlusconi sono state inevitabilmente accompagnate da una serie di commenti non sempre puntuali sul piano giuridico. Sarà dunque utile qualche precisazione che, pur ripetendo nozioni e concetti ampiamente conosciuti dai cultori del diritto costituzionale, può giovare a un migliore inquadramento dei fatti nell’ambito del vigente ordinamento. La situazione normale è quella della elezione delle camere che durano in carica per una legislatura di cinque anni e concedono o revocano la fiducia a un governo espresso dalla maggioranza parlamentare che si è formata in conseguenza del voto dei cittadini. La sovranità appartiene al popolo – così recita il secondo comma del primo articolo della nostra carta fondamentale – che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione: è la consacrazione del ruolo centrale del parlamento che nello svolgimento della funzione legislativa trova il più alto momento di gestione della cosa pubblica. La tradizionale ripartizione dei poteri, quale teorizzata da Montesquieu nello Spirito delle leggi pubblicato verso la metà del Settecento, è stata accolta nel nostro ordinamento ma integrata con un articolato meccanismo di bilanciamento: in aggiunta alla separazione tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, si è previsto il sindacato di legittimità accentrato sulla corte costituzionale, che può abrogare ossia cancellare le leggi, e si è costruito intorno alla figura del capo dello stato un complesso di attribuzioni che gli consentono di partecipare a tutte le funzioni senza essere titolare di alcuna di esse. L’Italia è una repubblica parlamentare e tuttavia il presidente, che è il capo dello stato e rappresenta l’unità nazionale, dispone di strumenti idonei a garantire al massimo livello il corretto funzionamento del sistema.
La più incisiva e delicata facoltà del presidente è quella di scioglimento delle camere, che può essere esercitata in ogni tempo e in piena discrezionalità, senza alcun limite che non sia quello del cosiddetto semestre bianco (quando manchino alla scadenza del mandato sei mesi e questi non coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura) e con il solo onere di sentire – e quindi non di condividerne il parere – i presidenti delle camere stesse. Questo punto fondamentale merita di essere sottolineato, perché la funzione suprema di tutela della comunità nazionale non tollera condizionamenti di sorta: il capo dello stato è e deve restare l’unico a poter decidere in piena libertà e autonomia se e quando occorra interrompere il decorso naturale della legislatura nel presupposto che si siano determinate circostanze di grave eccezionalità, tali da imporre nell’interesse generale di bloccare e fare ripartire daccapo le lancette di un orologio che in condizioni normali scorre fino al termine prefissato. L’esperienza ha portato gli studiosi a individuare alcune situazioni tipo, tra cui la mancanza in parlamento dei consensi necessari ad assicurare la fiducia e quindi la sopravvivenza al governo; ma la storia repubblicana, soprattutto sotto la presidenza Scàlfaro, ha dimostrato che l’interpretazione del concetto di maggioranza non è strettamente vincolata alla riproduzione automatica degli schieramenti confortati dai risultati elettorali.
Il governo non ha altra definizione che quella con cui viene denominato: non vi sono aggettivi come tecnico o politico, se non nel linguaggio corrente per indicare le situazioni concrete in cui di volta in volta ci si trova. In questo senso ci si è sbizzarriti con espressioni gergali per lo più di fonte giornalistica: dai governi balneari di Giovanni Leone destinati a durare per una stagione estiva a quelli variamente riferiti alle necessità del momento, come i governi di emergenza, di larghe intese, di salute pubblica, di necessità, di unità nazionale; o anche il governo quadripartito del centro-sinistra Dc-Psi-Psdi-Pri o quelli monocolore presieduti da Giulio Andreotti e sostenuti dal solo voto favorevole della Democrazia cristiana e dalla astensione degli altri partiti della coalizione. Del resto, è improprio anche parlare di prima, seconda repubblica e così via, come pure si è fatto sull’esempio francese, mutuando una espressione priva di riscontri nel vigente contesto istituzionale. Sono tutte parole e locuzioni di natura politica, pericolosamente fuorvianti quando inducano a pensare che vi siano state innovazioni radicali nell’impianto costituzionale, che invece dal quarantotto ad oggi è rimasto in buona sostanza immutato.
Si è tuttavia delineata una tendenza alla semplificazione del sistema attraverso la legislazione ordinaria. Non si è cambiata la costituzione e si è lasciata intatta la forma della repubblica parlamentare: nessun presidenzialismo né compiuto né strisciante; però si è favorita nella fase elettorale l’aggregazione o l’apparentamento delle liste, consentendo ai singoli partiti di superare la quota percentuale di sbarramento e giungendo poi al conferimento dell’incarico al candidato premier indicato dalla coalizione vincente. Il premio di maggioranza ha fatto il resto: per la camera sono stati garantiti trecentoquaranta seggi su seicentotrenta allo schieramento che ha prevalso sugli altri, mentre al senato il premio scatta su base regionale e il risultato finale può non coincidere con quello ottenuto per l’altro ramo del parlamento. E pensare che la riforma applicata nel 1953 per la seconda legislatura, che prevedeva un premio per chi avesse ottenuto la maggioranza assoluta (ma la Democrazia cristiana, che doveva esserne la beneficiaria, non raggiunse quella soglia), fu bollata allora ed è passata alla storia come legge truffa.
Si è affermato in questo modo il bipolarismo, per cui in prima battuta ha la maggioranza in parlamento ed esprime il governo la coalizione di destra o quella di sinistra; ma si parla comunemente di centrodestra e centrosinistra, anche se la formazione di centro ha nell’attuale legislatura una collocazione autonoma. I singoli partiti, confluiti in una coalizione e grazie a questa presenti nelle camere, sono però liberi di organizzarsi in propri gruppi secondo le norme dei regolamenti parlamentari. Diviene allora possibile una geografia politica che in parlamento non rispecchia più i risultati delle urne: basta la dissociazione di una componente della maggioranza (è il caso della formazione voluta da Gianfranco Fini) o anche di singoli deputati o senatori in transito da uno schieramento all’altro per rimescolare le carte e modificare gli equilibri tra le forze in campo, determinando nei casi limite quei cambiamenti di maggioranza noti come ribaltoni.
Torna in situazioni di questo genere il ruolo determinante del capo dello stato. La formazione del governo avviene su impulso del presidente della repubblica, che nomina il presidente del consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri. Qui si sono inseriti alcuni passaggi non previsti dalla costituzione ma ormai consolidati nella consuetudine: è il caso delle consultazioni, per le quali si è addirittura codificato un ordine di precedenze. Prima di conferire l’incarico di formare il governo, il presidente sente i suoi predecessori, i presidenti delle camere e i rappresentanti delle forze politiche in sequenza inversamente proporzionale rispetto alla loro consistenza: dai più piccoli ai più grandi, concludendo con il principale partito di opposizione e con quello di maggioranza: nella presente fase storica, il Partito democratico e il Popolo della libertà. Sulla base delle indicazioni emerse e delle proprie valutazioni, il presidente della repubblica sceglie la persona a cui affidare l’incarico di formare il governo; il presidente incaricato, se accetta con riserva, tiene a sua volta le consultazioni e si presenta al Quirinale quando è in grado di disporre di una maggioranza per procedere poi con la lista dei ministri ovvero quando non è riuscito nell’intento e rinuncia all’incarico.
Il governo può cadere per effetto di un voto espresso anche da una sola camera che gli neghi la fiducia ovvero per dimissioni: allora si parla di crisi extraparlamentare. Nel caso di questi giorni Silvio Berlusconi si è dimesso senza essere stato sfiduciato, ma non può parlarsi di crisi extraparlamentare se non in senso formale, perché un voto alla camera c’è stato e l’approvazione del rendiconto dello stato è avvenuta a maggioranza relativa fornendo così la dimostrazione che il governo non poteva più contare sul consenso parlamentare. Anche se nessun obbligo di dimissioni sussiste per il governo a causa del voto contrario su singoli provvedimenti e a maggior ragione quando vi sia stato un voto favorevole a maggioranza relativa, sono prevalse considerazioni politiche e si è aperta la crisi rimettendo ogni decisione alla autorità del capo dello stato.
Il sistema è bipolare ma non bipartitico; è possibile ogni soluzione purché il presidente della repubblica ritenga di accettare una maggioranza parlamentare anche se questa venisse a costituirsi con caratteristiche diverse da quelle originariamente espresse dal corpo elettorale; è ugualmente possibile uno scioglimento delle camere anche se vi si formasse una maggioranza che non si ritenesse di poter convalidare. Va però notata una particolarità delle ultime vicende politico-istituzionali: per la prima volta nella storia repubblicana il presidente ha designato la persona cui affidare l’incarico per la formazione del nuovo governo in anticipo sulle dimissioni di quello uscente. E lo ha fatto nel modo più clamoroso: creando la nuova figura del presidente designato e nominando il professor Mario Monti senatore a vita. Siamo nel pieno esercizio delle prerogative presidenziali e non c’è nulla da dire sotto questo punto di vista; ma in linea generale è lecito osservare che un nuovo componente della camera alta di estrazione non elettiva incide sulle maggioranze che in quella sede si sono spesso raggiunte sull’esile filo di alcune unità, tra le quali i voti dei senatori a vita possono risultare determinanti. Ma questo ordine di notazioni esula dal campo giuridico per entrare in un discorso squisitamente politico.
Lillo S. Bruccoleri
Novembre 2011, Diario Giuridico