Conversazione con Giuseppe Aquino

Dopo alcuni anni in trasferta a New York e Los Angeles – immerso, tra studi e lavoro, milionario e patinato americano e qualche volta in quello italiano «sempre uguale» che sbarcava negli Stati Uniti nei vari festival – sono rientrato a Roma.

Sentendomi un po’ spaesato e sradicato, ho chiamato un amico di famiglia, il navigato regista Rai Giuseppe Govino, e gli ho domandato se per caso conoscesse qualcuno giusto per me, qualche film maker visionario. Per intenderci, qualcuno che avesse la passione di una volta (quella dei registi italiani d’antan), qualcuno che potesse riaccendere un po’ di fuoco in quest’ambito sempre più piatto, qualcuno con cui discutere dell’arte della regia e non di quella del mercato.

La risposta, chiara e tonda, è stata: Giuseppe Aquino. Ed ecco la nostra conversazione.

Alcuni dei tuoi lavori più rappresentativi: Strike (1996, serie di trasmissioni televisive), Debole luce (2000, film sperimentale), Michele Poggioli the boxer (2005, film documentario), Dentro di me (2007, film sperimentale), Equilibri (2008, cortometraggio in finale al Napoli film festival), Matulli (2008, corto in finale al premio Massimo Troisi).  Esiste un filo rosso che lega questi tuoi lavori?

Sì, esiste un filo conduttore. Tutto quello che ho prodotto nel primo decennio non era mai finalizzato alla vanità, al guadagno, al mio prestigio, ma era solo passione per il cinema e la ricerca del nuovo.

Michele Poggioli the boxer è la storia vera di un giovane adolescente che stava soffrendo molto per la separazione dei genitori facendo danni a persone e cose. L’assistente sociale riesce a far canalizzare verso la boxe l’aggressività del ragazzo, che, in un anno, diventa un pluripremiato campione. Il film documentario si sofferma sulle fasi finali del suo percorso.

Equilibri ha ricevuto le lodi di Francesco Rosi in persona, ospite d’onore al festival di Napoli. La sceneggiatura, scritta da Gianni Caruso, è stata interamente rivisitata dal sottoscritto. Racconta di un architetto fobico e pieno di ossessioni, inclusa quella dell’ordine e della pulizia, che, non appena si accorge della diversa lunghezza delle sue dita, medita il gesto folle di «pareggiarle».

Anna Crispino, moglie di Carlo Delle Piane, è rimasta colpita da Equilbri, ravvisando delle similarità tra il protagonista e Carlo e lo stile di regia stesso ed ha fatto da tramite tra noi due.  Infatti fu amore professionale a prima vista: io stavo cercando un protagonista di calibro per il mio primo film e lui cercava un regista a cui affidare le sue straordinarie idee.

Mi sono sentito felice da un lato e preoccupato da un altro, perché subito prima di me c’erano stati Pupi Avati ed Ermanno Olmi. Invece è andata benissimo ed è una collaborazione ancora in essere dal 2009. Per Carlo ho ideato e diretto svariati lavori. Tra i più noti ci sono le opere teatrali Io, Anna e Napoli (2010-2011) e Chiaro come il cielo (2011) ed il film documentario Il bello del cinema italiano (2011). Nel 2013 questo documentario è stato realizzato anche in versione teatrale all’auditorium di Roma. E poi la collaborazione con Carlo a me più cara è quella da protagonista nel mio film documentario L’alba del possibile (2009).

Negli ultimi dieci anni ti sei impegnato in modo costante in una ricerca più approfondita nell’arte della regia come strumento di comunicazione per l’impegno sociale. Cosa ci puoi dire su questa rinnovata fase artistica?

Che provo amore per questa scelta artistica perché per me è una regia utile. Nel 2008, con Immondizia napoletana, ho effettuato un reportage filmico e fotografico sull’emergenza rifiuti a Napoli. Il governo stesso ha utilizzato le mie immagini, reperibili sui social, per rendersi conto della situazione. Sono riuscito a sensibilizzare personalità di spicco nel panorama musicale, quali Jovanotti e Fiorella Mannoia. Inoltre ho inviato questi miei servizi alle maggiori testate internazionali, quali il New York Times e Le Monde, contribuendo alla risoluzione di quella terribile piaga.

Il film documentario Tsunami (2009) sulla catastrofe del 2004 che ha riguardato l’intero sud-est dell’Asia giungendo a lambire l’Africa orientale – che ha ricevuto una menzione speciale al Milano film festival (sezione: Ngo world videos reportage dal sud del mondo) ed una al Marbella international film festival – esemplifica la mia idea di regia che coinvolge tutti e cinque i sensi, passando attraverso i filtri. Ritengo che ognuno di noi, nella fruizione di qualsivoglia prodotto audiovisivo, abbia sviluppato dei «filtri». Il fatto è che si è raggiunto un tale livello di violenza nelle immagini da rendere necessaria una «corazza» per restare indenni da questo bombardamento mediatico. Il messaggio Tsunami passa lo stesso, ma in modo non violento. L’utente è chiamato a una ricezione mai passiva, ma ad interagire in modo attivo.

Nel 2010 il sopramenzionato film documentario L’alba del possibile, parte di un progetto sociale, ha ricevuto un encomio dal presidente della repubblica. Esso ha coinvolto circa cinquecento ragazzi a rischio delle scuole medie di Napoli, ai quali è stata offerta la possibilità di esporre le proprie creazioni in una mostra, voluta da un lungimirante studio di architetti (che ha anche coprodotto il film). Questi preadolescenti, a contatto con attori del calibro di Delle Piane, Sergio Solli, Marina Suma, Rosaria De Cicco, hanno collaborato in modo attivo al film ed hanno compreso come l’arte cinematografica sia fatta da tante professionalità diverse in armonia tra loro.

Nel 2013 ho partecipato al progetto Read On!, promosso dalla prestigiosa casa editrice Oxford University Press, realizzando quindici film tutorial, per l’apprendimento veloce della lingua inglese. I video servono a formare gli insegnanti, facendogli apprendere questo metodo didattico innovativo. Ciò si rivela prezioso, e direi addirittura «vitale», in paesi poveri oppure quando ci si rivolge a profughi che hanno la necessità di integrarsi nelle società ospiti. Il progetto è stato appoggiato dalle maggiori istituzioni britanniche.

Dal punto di vista tecnico, mi sono cimentato nel piano sequenza (un’inquadratura particolarmente lunga, senza stacchi né interruzioni, che riprende nella sua interezza una scena o una sequenza) di durate che sfidano tutti i record. Visto il successo dell’iniziativa, nel marzo 2013, il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) mi ha affidato l’insegnamento, attraverso un workshop, dell’impiego della tecnologia cinematografica come strumento didattico.

Attualmente hai finito di scrivere tre sceneggiature con i relativi soggetti per tre film, hai un film documentario in lavorazione coprodotto dal Sinspe con la collaborazione della Caritas, stai girando la serie televisiva etica Nostra terra, stai montando due lavori per la Rai. Ma come si fa a fare tutto insieme?

Ci sono tante collaborazioni, impossibile citarle; faccio eccezione per quella preziosa di Maurizio De Franchis. Poi seguo un mio metodo: ho notato che quando fai un lavoro per volta non sei più lucido, sei troppo dentro il progetto e rischi di non avere più il punto di vista vergine dello spettatore e questo è un errore grave che commettono molti colleghi. C’è anche un altro motivo per me più importante: quando i progetti sono nobili e utili, non sei più il regista che decide secondo le sue regole e quelle del mercato, ma diventi uno strumento; la forza, la lucidità e le soluzioni ti vengono dall’alto.

La fede e la regia?

La fede in modo naturale ti impone di lavorare nell’utile e nel bello avendo il giusto rispetto per il tuo talento e per gli ultimi.

Cosa hai appreso sulla recitazione, lavorando con una leggenda del cinema italiano, quale Carlo Delle Piane?

Esistono due metodi di recitazione predominanti che prendono il nome dai rispettivi fondatori, quello Stanislavskij e quello brechtiano (dal drammaturgo e regista teatrale tedesco Bertolt Brecht). Il primo, promotore di un realismo psicologico e di un totale calarsi nel ruolo da parte dell’attore, è stato ripreso dall’Actors Studio di New York, da dove sono usciti i più grandi attori americani, tra cui Marlon Brando, Robert De Niro, Al Pacino e Meryl Streep. Alle volte, il lungo processo di identificazione con il personaggio può lasciare degli strascichi nella psiche dell’attore. Ciò dipende in massima parte da chi si interpreta (si pensi a un serial killer o ad uno psicotico). Il metodo brechtiano, il suo «teatro epico», incoraggia gli attori a mantenere un distacco dai personaggi che interpretano, così da creare una sorta di estraniamento nel pubblico.

Una terza via, meno battuta ma altrettanto «maestra», è quella propugnata da Vittorio De Sica, uno dei padri del neorealismo cinematografico. Il leggendario attore Carlo Delle Piane, con cui ho lavorato per anni, esordì nello spettacolo interpretando Garoffi nel film Cuore (1948) proprio grazie a De Sica. Tra un aneddoto e l’altro, Carlo mi ha illuminato sul metodo del regista. Io l’ho fuso con il mio, creando un sistema didattico nuovo, soprannominato «Oniqua» (dal mio cognome al rovescio).

Mi chiedi il cuore del metodo? Ho mutuato un concetto dall’architettura (che ho studiato in gioventù), applicandolo alla recitazione. Quando si progetta uno spazio ed è presente un difetto di carattere estetico, la soluzione migliore è solo una: lo si fa diventare un punto di forza. Lo stesso è valido quando si insegna recitazione. Non si rimuovono le imperfezioni, ma le si esaltano.

Valerio Viale

Dal Mensile di aprile 2017

Nella foto: Giuseppe Aquino (a sinistra) insieme con Carlo Delle Piane

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